Respiri liberi

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  1. Teenar
     
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    Respiri liberi

    Entrai nell’aula quando era ancora semideserta. Il respiro calmo, lento e regolare accompagnava i miei passi ponderati. Seduti dietro alla mia postazione c’erano i signori Creta. Erano rimasti lì seduti per tutto il tempo, la pausa per deliberare doveva essere stata un tormento. Ne vedevo le spalle ingobbite dal dolore, mentre le loro teste erano teneramente abbandonate l’una sull’altra nella ricerca disperata di un po’ di sollievo. Cautamente arrivai alla mia sedia e con occhi seri mi volsi a guardarli. All’apparenza erano invecchiati di dieci anni, ma in realtà ne era trascorso solo uno da quando li avevo visti la prima volta. Lui, il dottor Carlo Creta, era il primario del reparto di chirurgia cardiotoracica dell’ospedale San Martino di Genova. Lei, Maria, era insegnante di lettere in un istituto professionale, due persone come tante altre, ma purtroppo destinatari di un fato avverso. Le loro mani erano intrecciate le une sulle altre formando una “piccola montagna di dita”, con quel dolce e semplice contatto forse, cercavano la forza. All’epoca non riuscivo a capire quale proporzione avesse il loro dolore, lo immaginavo, ma la mia immaginazione era troppo fredda e inesperta per una tale grandezza, in quel momento non potevo proprio capire.
    “Ormai ci siamo?” mi chiese Carlo con il viso segnato da profonde rughe e la voce incrinata da un pianto a stento trattenuto. Certo, di tempo ne è passato dalla scoperta, ma la tensione di questi momenti è indescrivibile, soprattutto quella di chi è nella loro posizione.
    “Sì, ci siamo” risposi quasi in un sussurro, avrei voluto dirgli vedrete che andrà tutto bene, ma non me la sono mai sentita di fare promesse impossibili.
    “Quanto ci vuole ancora?” mi chiese Maria impaziente.
    Guardai l’orologio quasi con la stessa impazienza “Signora Creta, ancora una decina di minuti” la informai sedendomi di fronte a loro.
    “Lei crede che vinceremo?” mi chiese cauta, mentre dai suoi occhi sgorgavano due lacrime di tristezza.
    “Non posso dirvi come andrà” risposi cupa.
    Le mie orecchie furono attratte dal rumore di una serratura che veniva aperta, finalmente stavamo per iniziare. Con il capo chino e le mani ammanettate dietro la schiena entrò l’imputato, silenzioso e deferente si introdusse nella sua cella senza emettere il minimo sibilo.
    “Assassino” digrignò Maria con un sussurro amaro.
    “Shhh tesoro” la consolò dolcemente il marito abbracciandola.
    Attimi di silenzio carichi di tensione, poi finalmente entrò la corte D’Assise.
    I due giudici togati si sedettero al centro del lungo banco, mentre i sei giurati popolari si divisero in parti uguali da entrambi i lati. Fu il Presidente Giuliano Onori ad enunciare il verdetto.
    La mia mente era trasportata altrove, non riuscivo a staccarla dai loro silenziosi singhiozzi, ma riuscii a capire.
    “L’imputato Mario Fulgi è dichiarato colpevole del reato di omicidio preterintenzionale a danno della vittima Elisa Creta. La pena comminata è di diciotto anni di reclusione da scontare presso il carcere di Regina Coeli a Roma”.
    Sentii i loro respiri fermarsi per un attimo insieme ai singhiozzi, poi ricadere copiosi su di loro, ma erano di sollievo. Ci alzammo in piedi e attendemmo l’uscita dell’assassino che mi fissava con uno sguardo truce e vendicativo, ma non importava, finché sarebbe stato dentro ad una cella, per me non ci sarebbero stati problemi.
    “Grazie!” esclamò Maria gettandomi le braccia al collo.
    “Non mi dovete ringraziare” riuscii a dire emozionata “è stata la giusta sentenza” aggiunsi stringendole le mani in modo comprensivo.
    Mi salutarono e lentamente uscirono dall’aula.
    I miei passi riecheggiavano nei lunghi corridoi del tribunale, erano veloci poiché avevo un disperato bisogno d’aria pulita.
    Ferma in strada lasciai che i raggi del sole primaverile mi sfiorasse la pelle gelida e mi infondesse il corpo di un calore vivo.
    Accesi il cellulare come d’obbligo e chiamai lo studio, dovevo avvisarli del mio successo.
    “Ennesimo successo!” esclamò Marta dall’altro capo del telefono.
    “A quanto pare” replicai senza imbarazzo.
    “Dodici cause e dieci successi, lei è la migliore!” aggiunse con enfasi e orgoglio.
    “Ho sempre avuto i casi giusti” risposi e mi schernii un poco.
    “Martina, ho un caso per te!” sentii la voce del capo irrompere nella conversazione.
    “Dottor Maini cosa succede?” chiesi in apprensione.
    “Crediamo di aver trovato il serial killer ligure” disse d’un fiato “ho bisogno di te per l’accusa” aggiunse dandomi un compito molto più grande dei miei trascorsi.
    “Dottore non credo di essere pronta” replicai cercando di far spostare la sua decisione su qualche membro più anziano.
    “Lo sei” rispose rapidamente “vieni subito in ufficio così chiariamo i dettagli e ti diamo il materiale su cui lavorare” aggiunse e riagganciò, lasciandomi confusa e interdetta.
    Guardai per un lungo istante il display bianco e mi disperai per il compito che mi era stato affidato. Certo, fino a quel momento avevo seguito molte cause e le avevo vinte, ma quello sarebbe stato diverso. Un serial Killer, stavamo parlando di un uomo che aveva ucciso sessantaquattro persone, tutte donne, con i capelli neri, gli occhi azzurri e una posizione lavorativa di potere ”Potrei essere una sua vittima!” pensai con angoscia.
    Salii in macchina e guardai ancora una volta il display e poi mi decisi “Ciao mamma, come va?” chiesi alla sua voce stanca.
    “Bene” rispose e ne notai l’irritazione “scommetto che non vieni” affermò seria.
    “Ho un altro caso devo andare in ufficio” risposi, sperando che non mi odiasse.
    “Forse devo uccidere qualcuno per vederti!” esclamò senza allegria “sono dieci giorni che non vieni” aggiunse acida.
    “Lo so, credi che a me non faccia piacere vedervi” dichiarai con fervore “stiamo parlando di un serial killer, non posso astenermi” spiegai, sicura di ammorbidire il suo astio.
    “Quello ligure?” chiese con interesse.
    “Hm, hm” risposi con un mugugno “ne parliamo domani sera” aggiunsi sollevata.
    “Ci devo credere?” chiese e sorrise alla cornetta.
    “Forse” risposi e mandando un bacio al telefonino chiusi la comunicazione.
    Le ore trascorse in ufficio a lavorare volarono via veloci e senza neanche accorgermene arrivò la sera.
    “Dottoressa Carli è ora di andare a casa” mi ricordò Marta con un sorriso gentile.
    “Mi fermo ancora un po’” la informai “chiudo io” e ricambiai il sorriso.
    “E’ venerdì sera, perché non esce un po’?” chiese e arrossì nel farlo.
    “Il lavoro assorbe tutto il mio tempo” risposi con gentilezza.
    “Nessuno lavora quanto lei” mi fece notare “siete giovane” aggiunse con un sorriso semplice.
    “Nessuno deve dimostrare qualcosa” sorrisi “è un mondo di uomini, non posso fermarmi mai” spiegai con candore.
    “Da quanto tempo non esce?” chiese interessata.
    “Ho perso il conto” e sorrisi nel cercare di ricordare “se non teniamo conto delle uscite per lavoro e quelle di famiglia, quasi sei anni” dichiarai sbiancando davanti a quella realtà.
    “Avete un fidanzato?” chiese e si scusò per l’indelicatezza.
    “Tranquilla” la rincuorai “no, non ce l’ho”.
    “Ne ha mai avuto uno?” chiese e si scusò nuovamente.
    “Al liceo” sorrisi “gli uomini sono delle distrazioni che non posso permettermi” sorrisi.
    “Non sente il bisogno di un po’ di compagnia?” chiese sorpresa.
    “A volte, ma non ho ancora incontrato nessuno che mi desti interesse” spiegai con noncuranza.
    “Ma se non c’è avvocato, giudice, postino o montatore che passi dall’ufficio e non le faccia la corte” affermò stupita “com’è possibile che non ce ne sia uno adatto a lei?” chiese ancora, come un uragano continuava ad infliggere domande a raffica.
    Feci spallucce e sollevai lo sguardo all’orologio che era sulla parete, segnava le 19.42.
    “Posso offrirti un aperitivo?” le chiesi, rendendomi conto tutta ad un tratto di non avere neanche amici.
    “Volentieri” rispose ed uscimmo per andare al bar sotto l’ufficio.
    Erano secoli che non entravo in quel bar, l’ambiente profumava di menta, misto a cibo ed era pieno di persone. Ci sedemmo ad un tavolo poco lontano dall’ingresso e lì prendemmo da bere.
    Mi guardavo intorno come se avessi avuto quindici anni e fossi alla mia prima uscita. Era strano il bisogno che avevo di respirare un po’ d’aria libera. Parlammo e decisi che poteva darmi del tu, risultava meno formale e mi faceva sentire più vicina a lei, anche se lei era ed è più giovane di me di dieci anni. Iniziai a sentirmi bene, come se tutti i brutti pensieri fossero rimasti chiusi nell’ufficio. Risi e non uno di cortesia che spesso facevo, ma uno reale e sentito. Riguardai l’orologio e vidi che erano quasi le nove. “E’ il caso che ti lasci andare” sorrisi “e che io torni a lavorare” aggiunsi e andai a pagare il conto.
    “Già pagato” mi informò il cassiere con un sorriso complice.
    “La ragazza che era con me?” chiesi sorpresa, non mi sembrava si fosse fermata.
    “Quel signore con la camicia nera” rispose indicando l’uomo.
    Mi volsi a guardarlo. Era seduto al tavolo in completa solitudine, indossava un vestito beige e la camicia nera. Aveva i capelli neri e un paio di grandi occhi verdi, quando i nostri occhi si incontrarono mi sorrise, un sorriso seducente e del tutto conturbante. Non mi era mai successo che uno sconosciuto mi offrisse da bere. Mi avvicinai con passi misurati e mi ritrovai a sorridergli in modo strano.
    “Grazie!” dissi chinando leggermente il capo “ma non dovevate” aggiunsi non riuscendo a staccare gli occhi dai suoi.
    “Era l’unico modo per offrirvi da bere” rispose e la sua voce aveva un timbro caldo e profondo.
    Sorrisi, ma non riuscii a dire nulla.
    “Se vi avessi invitato di sicuro non avreste accettato” suppose e le parole sembravano musica alle mie orecchie.
    “Chi può dirlo” risposi d’impulso e notai con sgomento che stavo civettando con lui, ma chiunque, vedendolo avrebbe avuto la mia stessa reazione.
    “Cenereste con me, domani?” chiese con naturalezza, facendo brillare i denti alla luce pallida del locale.
    Accettai del tutto rapita dal suo sguardo e dopo aver concordato l’orario, andai rapidamente a casa dei miei genitori.
    Da quel momento, carica di una sensazione nuova e sconosciuta iniziai a colmare le mancanze che c’erano nella mia vita.
     
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  2. mpblack
     
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    Caspita! Avvincente, mi ha tenuta incollata senza fiatare sino alla fine. Complimenti all'autore o all'autrice! ;)
     
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  3. Mediana
     
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    Non adoro le storie raccontate in prima persona, ma devo ammettere che questo racconto mi ha piacevolmente colpita. Complimenti per la completezza e per la scorrevolezza del brano.
     
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  4. Taurus77
     
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    E' sicuramente scritto bene e molto accattivante, ma anche in qeusto caso non ho trovato una trama efficace. La storia sembra andare in un modo, poi si conclude all'improvviso tutta in un'altra direzione... non so, ma mi ha lascato un po' stranito.
    In generale, comunque, è interessante.
    Una domanda: ma perché i personaggi si danno del Voi e non del Lei?
    Questo magari dipende dalla mia ignoranza, può darsi che a Genova si parli così (come a Napoli, del resto), ma non ci sono mai stato.
     
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  5. Dolceamore.Maria
     
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    Molto interessante e scritto bene. Il Voi non stona se si pensa che l'autrice ha iniziato con i romanzi rosa. In effetti adesso il Voi non si usa più, ma secondo me non rovina il brano.
     
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4 replies since 30/11/2008, 18:47   167 views
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